In un certo senso, siamo fatti
della stessa materia del viaggio: l'attesa. Attesa di un
incontro, attesa di un'isola dietro l'orizzonte, attesa di
una birra fresca, attesa del rientro a casa di un
figlio... E come ogni viaggio pure noi abbiamo un orario
di partenza (già pubblicato) e uno di arrivo (ancora da
pubblicare).
«Fin da
giovane ho intuito il viaggio come una scrittura
intravista e differita. Il vero viaggio. Più tardi capirò
quanto la solitudine consapevole, sicura di sé, la
solitudine accettata, sia già scrittura; non ancora tradotta
dal silenzio, magari, ma già struttura presente. Ho viaggiato. Ho viaggiato molto... Quanto all’atto di scrivere, di
trascrivere la scrittura intravista, ebbene, confesso che
ho continuato a differirlo per lungo tempo.»
«Virare,
rivirare. Vivere. Rivivere. Parto sempre meno. Non che mi
manchi il desiderio, e nemmeno l’energia. Ma è come se
una ipermetropia dell’animo m’impedisse di vedere la
cima dell’isola dietro l’orizzonte. E a quanto mi
risulta, nella storia dell’uomo, nessuno è mai partito
verso un orizzonte vuoto. Tranne i turisti, certo. (Essi
però rientrano nella categoria dello spostamento, non del
viaggio. È tempo di grossi affari per gli spacciatori di
ovvio e di avventura).»
Il viaggio è il tema che percorre
L'esilio dei sogni dalla prima all'ultima pagina,
sia in forma di metafora, sia in forma di racconto. Il
viaggio inteso come pratica dell'altrove, un'apertura
all'altro, al diverso da noi... viaggio di scoperta di ciò
che sta fuori di noi, ma nello stesso tempo anche di ciò
che sta dentro di noi, che è poi la parte più importante
di un vero viaggio... C'è un bel vocabolo di origine
greca per indicare questo aspetto del viaggio verso
l'interno: anàbasi. [È anche il titolo di una
raccolta di poemi di Saint-John Perse, premio Nobel
1960]. Significa spedizione verso l'interno di una terra,
e contiene la radice salire (aná). Viaggio verso
l'interno di se stessi e ascensione nello stesso tempo,
conquista di un più vasto orizzonte.
Quindi il viaggio può
essere solo un viaggio di scoperta. Scoperta: non di nuove
terre, ma perché si hanno occhi nuovi. Insomma, essere
ancora capaci di stupore davanti a ciò che vediamo e agli
incontri che facciamo, stupirsi del diverso e
comprenderlo... Può sembrare banale... Ma non credo che
lo sia. Soprattutto in tempi di “pacchetti turistici”
e di razzismi viscerali...
Il fascino forse maggiore del viaggio è quello di essere
visti da occhi nuovi, per la prima volta. Non nella
speranza di ingannare gli altri o se stessi, ma per
alimentare le energie del rinnovamento, del proprio
rinnovamento: un vero viaggio è anche, inevitabilmente,
una palingenesi. Invece gli sguardi vecchi di chi ci
conosce, o crede di conoscerci, tendono a essere fissisti,
a vederci immutabili, sempre gli stessi: così
contribuiscono a invecchiarci lo spirito e anche il corpo,
molto più di tutti i danni del tempo. (È questo il
problema fondamentale della coppia; la sua impossibilità,
secondo me, di funzionare oltre un certo limite... Ma
questa è un'altra storia.)
Avere occhi nuovi, ma anche essere
visto da occhi nuovi, dunque.
P.S.
Se il viaggiare è la pratica
dell'altrove, navigare a vela è la frequentazione di un
altrove ancora più vasto e, in un certo senso,
inafferrabile... È una delle attività più affascinanti
che esistano, è l'immagine simbolo dell'autonomia... Come
tutte le cose umane ha il suo lato negativo, che non è il
rischio o la fatica fisica e morale per superare le
difficoltà ambientali (tempeste, pirateria ecc.), ma
piuttosto il fatto che una barca è un oggetto molto
vulnerabile: non la si può mai abbandonare, intendo dire
chiudere la porta e andarsene in giro a terra per lunghi
periodi, come si farebbe con una casa... soprattutto
quando si è responsabili e si assume tale responsabilità
con rigore.
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